LUCA PIGNATELLI: L'ANTICO COME DIFFERENZA E RIPETIZIONE
Arturo Carlo Quintavalle

1. / La materia di Pignatelli
Migranti è una serie di nove opere, tecnica mista su tavola, una di queste, Mitridate re del Ponto, è entrata a far parte delle raccolte degli Uffizi.
Per capire il lavoro, la ricerca di Pignatelli, bisogna immaginarsi il suo studio: un capannone e diversi locali attorno, forte luce un poco ovunque, poi un livello inferiore dove tutto è buio e luce artificiale e qui si sovrappongono, a parete, decine di opere, superstiti di precedenti ricerche: le serie dei vasi antichi, le serie delle stazioni e delle locomotive, le serie degli aerei, le serie delle tigri, le serie dei dirigibili ma, sopra tutto, le serie delle antiche figure scolpite, tutte ricavate da foto in bianco e nero dei cataloghi di musei di mezzo occidente, Berlino e Monaco, Roma e Vienna, Londra e Parigi e poi musei minori spersi al sud dell’Italia o della Grecia. Mi immagino Pignatelli mentre cerca i luoghi, si avvia per le strade delle città, quella della Gliptoteca di Monaco, dell’isola dei Musei a Berlino, del Campidoglio e dei Fori Imperiali a Roma, di Atene o di Olimpia, di Londra e del Metropolitan a New York. Scatta fotografie? Forse, ma non credo; a Luca Pignatelli interessa la riproduzione perché quella è già una scrittura, anzi una trascrizione dell’opera, è già come consegnare una immagine alla dimensione della memoria. Certo, lo vedo viaggiare fra le sculture nel museo, ma lo riconosco quando sfoglia i libri, cercati a lungo da antiquari, o trovati sui banchi di venditori occasionali, e qui eccolo a scoprire -tesori- che per altri restano vecchi libri stampati su carta patinata, spaginati, macchiati, per giunta in tedesco, in inglese, in greco. Pensate,ho visto sui suoi tavoli persino un libro russo, con imprimiture in oro, naturalmente il testo in cirillico.
Così il primo livello di Pignatelli è costruire un sistema di immagini e, per l’antico, che viene evocato nella serie che sto per analizzare, il passaggio più importante è la scelta delle immagini. Poi si devono riprendere, poi si deve conservare la matrice elettronica e pensare a come disporla nel contesto dell’opera finita. Ma c’è un altro passaggio altrettanto importante rispetto a questo, passaggio che di solito si trascura ma che, per Pignatelli, è scelta di linguaggio, anzi prima fase della elaborazione del linguaggio. Dunque Pignatelli sceglie una materia, in questo caso legni antichi, altre volte teloni
incerati che coprivano vecchi vagoni merci, altre volte forate, consunte tele di sacco segnate da usi precedenti, scoperte mei mercati ortofrutticoli, nei depositi di imprese fallite, nei territori di periferie industriali abbandonate. Pignatelli, nei viaggi cerca proprio questo, carichi di legni, di tele, frammenti della memoria perduta delle città, e così ancora vecchi chiodi, utilizzati anche in questo gruppo di opere, oppure ganci, anelli, zeppe di legno o di metallo. Così l’opera di Pignatelli è come un collage, trasformazione di elementi diversi che in apparenza fanno da supporto ma che diventano, da subito, originale grafia, nuova scrittura. Su questi elementi, su questi così detti supporti, l’artista poi distende una immagine e, se dico distende, non lo faccio a caso perché il formato, la dimensione sono importanti e si collegano felicemente alle rotture, alla frammentazione del supporto che l’artista rispetta sempre e, a volte, integra e corregge.
La -correzione- in realtà è invenzione di un sistema fortemente strutturato che deve molto alla tradizione di De Stijl, piuttosto Piet Mondrian che Theo van Doesburg; infatti a Pignatelli interessano le strutture ortogonali piuttosto che le curve, queste, semmai, le disegnano le immagini che inserisce proporzionatamente nel contesto. Quando la struttura ortogonale è pronta, quando i rapporti che molte volte evocano la sezione aurea sono divenuti stabili, e lo si vede bene nella serie delle nove opere che qui si propongono, allora l’artista interviene con qualche tocco di pennello per segnare degli scuri, per rialzare i chiari; così l’immagine del supporto e quella del testo fotografato e posto su di essa vengono ancora modificate da ulteriori interventi finché la intera -macchina- non appare racconto di forte evidenza. Ma racconto vuol dire variazione e quindi invenzione. Pignatelli lavora per serie ma ciascuna serie, ciascuna opera della serie, è come una variane diversa di una medesima struttura, variante che inventa gli spazi, che reinventa i rapporti ma che mantiene sempre uno schema di base di grande coerenza e immediata riconoscibilità. È questa la -ripetizione differente- di Pignatelli che ritroviamo nelle sue geniali invenzioni grafiche come nella progettazione delle opere che, per convenzione, chiamiamo dipinte ma che sono strutturate, colpite, perforate, ricucite, poi organizzate dalle immagini e infine, ancora, ritoccate a pennello. Perché Luca Pignatelli è un perenne insoddisfatto e, proprio per questo, un instancabile inventore di modifiche, di trasformazioni delle proprie opere. Per Pignatelli una serie è come un romanzo, capitolo per capitolo deve avere un proprio logico filo, deve suggerire una storia, anzi molte storie, ma, insieme, deve apparire subito come un sistema collegato, dove un pezzo risponde all’altro, si riconosce come parte di un gruppo ma, insieme, si distingue.
Pignatelli dunque sa raccontare ma, di fronte alle proprie opere, è sempre parco di spiegazioni; sostiene che i critici, gli interpreti, devono suggerire le loro analisi e qui, in questo caso più che in altri, solo il titolo che ha proposto ci dà lo spunto per suggerire una lettura. Comunque, e come ultimo introibo a un commento forse troppo banale, vorrei aggiungere che le opere di Pignatelli si leggono strato dopo strato, come se chi guarda dovesse compiere, sulla superficie apparentemente sottile dell’opera, un lavoro di scavo. Scavo che dovrà subito scoprire i rapporti spaziali delle immagini e dunque la loro struttura, quindi dovrà leggere il supporto e i suoi caratteri, e infine analizzare il retro dell’opera che sempre, con Pignatelli,
è importante e lo è anche in queste opere delle quali si dovrà smontare la capsa che nasconde ora un vissuto retro di legni. Infatti proprio dietro le pitture scopri importanti tracce di antichi usi: imprimiture, scritte, chiodi, traverse, timbri, materiali che Pignatelli programmaticamente sempre conserva e spesso esalta. Per lui quei frammenti, veri -oggetti trovati- nella tradizione di Marcel Duchamp, sono anche la prova che ogni opera propone diverse storie, quella che subito vediamo, il soggetto, il sistema delle immagini antiche è la più ovvia, ma vi sono altre storie, dietro, dentro, che vanno scoperte, quelle degli usi precedenti di un telone, o di un supporto di legno.In fondo Pignatelli sceglie quei frammenti perché per lui essi, tutti, sono segno del tempo ed è proprio questa -lunga durata- una delle possibili ragioni della scelta delle immagini antiche che tante volte torna nell’opera di Pignatelli. Certo il nesso di quelle immagini col supporto di materiali -trovati- fa capire come le opere che vediamo siano esse pure, forse, in attesa di una possibile distruzione. Sappiamo bene che questi atleti, retori, divinità sono frammenti di un lontano passato, frammenti molto noti, figure che abbiamo negli occhi fin dalla scuola, immagini che la gente della mia generazione riconosceva sulle pagine grigie di sfogliati manuali. Forse Pignatelli ha scelto quelle immagini proprio perché note,
riconoscibili, identificabili come traccia e struttura di un comune passato in Occidente. Ma le ha scelte anche perché esse sono, insieme, segno del tempo trascorso, della distanza e, ormai per pochi, anche eco di qualche lettura di canti dell’Iliade, dell’Odissea, dell’Eneide o delle Metamorfosi studiati magari ai tempi del liceo classico. Dunque memoria, queste figure antiche, di un passato mitico, raccontato. Eppure proprio questo insieme di personaggi mitologici, affioranti da supporti improbabili, da consunti resti di recenti naufragi mercantili, di fallimenti delle fabbriche di periferia, finisce per dare il segno delle scelte dell’artista. Così proprio quei supporti fratti e usurati sono individuati da Luca Pignatelli come segni della dissoluzione del presente. Dentro ogni sua immagine l’annuncio, la traccia della fine.

2. / Migranti
Li ha chiamati –Migranti– non a caso. Luca Pignatelli dei relitti, dei frammenti, dei resti anche e proprio delle immagini ha fatto il fulcro di una ricerca che ha spazio e peso a livello europeo. Adesso queste nove opere, una delle quali, Mitridate re del Ponto, resterà nelle collezioni degli Uffizi, pongono un problema: come raccontare la ripetizione, come raccontare le differenze nella apparente ripetizione. Perché fra le immagini, a parte il Mitridate del quale Pignatelli ha una variante in studio qui non esposta, il volto del Museo archeologico di Taranto è proposto in tre versioni, due sono quelle della Diana di Carlsberg, due quelle della Afrodite di Olimpia, una sola invece è la testa del Kunsthistorisches di Vienna. Osservate prima di tutto il supporto di grosso legno che reca tracce di storie differenti, di tagli, di sovrapposizioni, di venature, di usure. Pignatelli a volte ha inserito chiodi, dei chiodi che una volta, tanto tempo fa, ha trovato e che formano come una costellazione, in certi pezzi, di vicende antiche, come se sul legno fosse stata fissata una tela oppure come se qualche altro evento avesse lasciato un pezzo di telaio, un’asta di legno inchiodata di traverso, secondo una asimmetria attentamente calcolata. Le opere hanno anche un retro che a volte è intenso come una composizione astratta: del resto Pignatelli trova la sua matrice, il suo riferimento strutturale nella astrazione, quella che viene da Burri, da Fontana, dalla Nevelson, ma anche da Mondrian. La geometria è la traccia interpretativa per leggere queste opere.
Dunque le immagini: basta una foto più da vicino, un contrasto appena più forte, basta una variane ritrovata nei cataloghi dei musei o ricavata in stampa con l’aiuto della elettronica e i volti di Taranto, di Carlsberg, di Olimpia appaiono diversi. Lo sanno bene gli archeologi che è sufficiente una fotografia diversa, o una stampa su carta più contrastata o più trasparente, per cambiare il senso dell’immagine; per Pignatelli queste variazioni sono segni di memorie, di rapporti, di storie differenti.
Il titolo: Migranti. Prima di tutto perché questi pezzi, è ovvio, hanno viaggiato a lungo nelle collezioni d’occidente, ma sopra tutto perché questi pezzi sono tracce di racconto, evocano coi nomi, coi luoghi dove si conservano, con le identificazioni supposte, ad esempio il volto femminili di Vienna è stato anche pensato come ritratto di Saffo ed è comunque un variante imperiale di un modello più antico,
Luca Pignatelli, Planisphere, 2013 – 204 x 164,5 cm – Tecnica mista su carta intelata.
evocano, ripeto, un viaggio della mente, nelle memorie di un passato che per noi, oggi, è traccia di letture liceali, segno di cataloghi di musei, di manuali universitari, di riviste vecchie di generazioni e poi disperse che Pignatelli ha tante volteritrovato e raccolto.
Dunque questi volti, queste figure viaggiano nella memoria e hanno viaggiato, migrato fisicamente da un luogo all’altro, sono segni di scavi, di ritrovamenti fortunosi, di acquisti periclitanti, ma anche traccia di corpi perduti, di nomi che ormai si associano solo in modo mitico alle figure. Saranno veramente Afrodite, Diana, oppure altro? E saranno sempre volti femminili oppure l’espressione patetica della figura di Taranto è quella di un giovane, un giovane del quale è difficile, nelle immagini, capire la razza? Migrano dunque i marmi, le memorie, ma migrano, hanno migrato anche i supporti, e sono questi legni che Pignatelli ha scelto, usurati dal tempo, legni che hanno una storia e che fanno somigliare queste figure ad antiche icone bizantine consunte dalla venerazione dei fedeli. C’è ancora qualcosa di sacrale in questi volti che evocano in noi, antichi scolari, i segni delle origini: poesie studiate, figure descritte, endecasillabi recitati, greco compitato, mitologie. Migranti è un titolo che potrebbe avere anche una valenza politica, allusiva a questo terribile transito di disperati da una riva all’altra del Mediterraneo, un Mediterraneo che, al tempo dei greci e dei fenici, era un mare pacificato e lo era ancora, Cartagine permettendo, al tempo dei romani. Così questo titolo, volutamente ambiguo, sottolinea la novità dell’invenzione di Luca Pignatelli che possiede anche un altro sapere, quello del narrare per episodi, per ritmi lenti: provate a scorrere da una figura all’altra cogliendo le differenze e le ripetizioni, scoprirete un tempo lento, quello della meditazione e del ricordo, un tempo sottilmente cinematografico.

A. Natali, A. C. Quintavalle, Luca Pignatelli, Migranti, Galleria degli Uffizi, Firenze, 2015
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