PALINSESTO
Angela Tecce

L’oscurità, il buio, l’emergere di figure, ridotte a sagome a volte indistinguibili, la consapevolezza di una storia che si svolge in profondità oltre quelle immagini, di cui cogliamo alcuni accenni, apparentemente privi di ambiguità ma sempre in bilico con l’arbitrario, l’assurdo, l’inverosimile ... Tutto il patrimonio poetico di Luca Pigna- telli, rimanda in modo complesso ed espressivo all’esperienza onirica, un’esperienza non legata direttamente al mondo del sogno ma piuttosto a quella sua amatissima parafrasi che è l’immaginario cinematografico. Non vedo dove altro il succedersi e il sovrapporsi di immagini così potentemente determinate dalla popolarità o dalla loro stessa forza espressiva riesca a perdere il suo carattere puramente citazionista per conquistare uno status di linguaggio, prepotentemente e fortemente ancorato a un immaginario collettivo di cose, volti, gesti. Un linguaggio che reinventa con- tinuamente i confini del proprio territorio espressivo per poter condurre il gioco ancora più lontano, spingendosi ogni volta oltre i limiti già fissati.
L’uso stesso del telone, tutt’altro che candido per verità, ma comunque assimilabile de facto a uno schermo su cui poter agire indisturbati rovesciandovi una piccola fetta di mondo, di memoria, di futuro riporta al topos del cinema, che sprigiona interamente il suo potenziale quando si ‘proietta’ all’esterno da sé, quando investe il mondo delle cose concrete col suo smaterializzante linguaggio. Resta qualcosa di questa smaterializzazione nelle opere di Pignatelli, non una scoria quanto piuttosto uno stadio pre-conscio di ragionamento, che rimanda anche a un antenato del cine- ma come lo conosciamo oggi, qualcosa che era chiamata ‘lanterna magica’ per la sua capacità all’epoca favolosa di sovrapporre e intrecciare figure che scivolavano silen- ziosamente lungo la parete, immobili eppure in movimento per narrare una storia.
Forse l’antitesi tra il cinema e le opere di Luca Pignatelli è nella cosciente, e coscien- temente, perseguita, antinarratività dell’artista milanese; a quelle forme che appa- iono inquietanti su di uno sfondo scuro che sembra stia di nuovo per inghiottirle non è concesso alcun tempo, sono immobilizzate in un eterno presente da cui non possono sfuggire per raccontare alcunché. Ma non si può sottovalutare che attra- verso il ‘montaggio’ tra le varie immagini, Pignatelli ambisca, se non a una fabula, perlomeno a un’articolazione psicologica che prenda il posto di uno svolgimento storico. Una storia, intesa come deposito illimitato di esperienze figurative, che si sviluppa sugli immensi schermi predisposti dall’artista attraverso delle impronte, quasi degli indizi, che consentono di risalire lungo il corso di secoli fin alle scaturi- gini della creatività, solo allora Pignatelli può far sue queste immagini e piegarle alle esigenze della pittura. Ad esempio ‘La biga’, che nell’impennarsi dei cavalli rimanda alla apollinea ‘quadriga del sole’, può spiccare il volo non solo per propria potenza icastica ma anche e soprattutto per il contesto entro la quale è posta, nel quale è destinata a scardinare la porta delle ‘tranquille dimore degli dei’ (Lucrezio) verso nuovi territori da esplorare.
Non solo la storia fa da serbatoio all’immaginazione di Pignatelli, altri topoi sono pronti a mettere il proprio potenziale fascino nei dipinti dell’artista: le montagne, gli aeroplani, le foreste ... la ‘neve’ che copre e cela tutto, come una pellicola che improvvisamente prenda fuoco e distrugga in un bianco accecante tutte le imma- gini che contiene ... il bianco come elemento distruttore, la luce come consunzione dell’immagine fino alla sua scomparsa. È vero che il fiume lutulento della storia
sembra avere incrostato questi teloni come se si trattasse del tegumento di una vec- chissima balena – uso un paragone affascinante dello stesso Pignatelli - che rimanda
ovviamente a Moby Dick, che appare agli occhi del giovane e terrorizzato Ismaele piuttosto un candido Leviatano, mostro biblico destinato a distruggere tutto ciò che incontra su proprio cammino, la cui pelle porti tutte le cicatrici di una storia drammatica e incompiuta, però è vero anche che queste fruste e tormentate superfici parlano una lingua che comprendiamo molto bene, perché ci è vicina e contempora- nea, e le sue ‘ferite’ non ci appaiono frutto di lotte abissali ma di più comuni, a volte non meno drammatiche, vicende quotidiane.
Così come ci riguardano i suoi paesaggi extraurbani, le sagome minacciose degli ae- rei stagliati contro il biancore delle cime, le figure che affondano nella neve, la cieca presenza di erme a difesa di un paese comunque inaccessibile, il passato. Immagini che ci toccano perché, nella perentoria affermazione di sé stesse, sono simili a tante altre che agitano i sogni urbani, le nostri notti di abitanti del presente, le ambiziose avventure intravvedute e svanite immediatamente. Potremmo chiederci se ‘Pom- pei’ possa costituire ancora un elemento perturbante del nostro immaginario, ma se non vogliamo credere al mito che viene rinnovato senza sosta, possiamo comun- que fare appello alla costante, quasi isterica attenzione che i mass media rivolgono costantemente a quello che è diventato un iperluogo, nel quale si concentrano tutte le frustrazioni di un presente che non ci offre quasi più che sterminate periferie, dove manca il respiro evocativo di nomi come Delfi, Corinto, Epidauro, Paestum e, appunto, Pompei. Del resto ciò che Pignatelli ci propone non è una placida connes- sione col sito archeologico quanto un palinsesto laboriosamente elaborato nel quale il tempo lascia i propri segni, fausti e nefasti ma comunque incancellabili, che di per sé diventa linguaggio autonomo, nel quale il tempo si fa opera creatrice.
Nelle immagini degli imperatori viene meno il riferimento all’immaginario proiet- tivo del cinema, ma l’ambiguità dell’opera d’arte è parte essenziale della sua efficacia comunicativa e Pignatelli usa il cemento per eternarli in un materiale ‘moderno’; come un tempo venivano riprodotti nelle monete d’oro o nella sardonica dei cam- mei, gli eroi e gli imperatori, i sacerdoti e i condottieri appaiono nei dipinti pronti a una processione, un ‘trionfo’ che li trasporti definitivamente in un empireo contem- poraneo dal quale non possano essere più scacciati.
La costanza con la quale Pignatelli dà spazio a tante immagini dell’antichità, mostra non solo la sua volontà di mettere in salvo la memoria dell’antico come elemento fondante della nostra umanità, ma anche di credere profondamente nel valore arti- stico e conoscitivo di questo patrimonio. Un patrimonio che si potrebbe considerare alla stregua di un serbatoio figurativo se mille indizi non portassero invece a consi- derarlo piuttosto un luogo di rielaborazione del vissuto. La ninfa, il volto, i cavalli si caricano di significati simbolici ed emotivi che ne fanno le spie di una tensione più profonda e coinvolgente, le loro relazioni, così come la ripetizione, fanno appello a pulsioni più profonde del semplice piacere estetico, si tratta di un atto di ripiega- mento e riflessione, da cui l’esperienza diventa vissuto, entrando a far parte a pieno titolo del nostro essere umani.

A.B. Oliva, M. Bonuomo, A. Tecce, F. Vona, Luca Pignatelli, Museo di Capodimonte, Napoli, Arte’m Editore, Napoli, 2014
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