TEMPUS ELEVAT OMNIA
Antonio Natali

Uno dei passi a giusta ragione più famosi e criticamente cruciali delle Vite di Vasari si legge nelle pagine che il biografo aretino, sulla metà del Cinquecento, mise a Proemio della parte terza e ultima del suo perspicuo manuale di storia dell’arte. Brano cruciale giacché enuncia con risoluta chiarezza il suo convincimento riguardo all’origine d’una dell’epoche più alte della cultura figurativa italiana. L’età è quella che lui definisce ‘maniera moderna’; moderna perché si tratta dello stesso suo tempo. In quella stagione – che, a leggere le Vite, si può all’incirca circoscrivere fra lo scadere del Quattrocento e la morte appunto di Vasari (1574) – vissero artefici di tale levatura stilistica e di tale tenore poetico da consentire d’annoverarla fra quelle irripetibili. E non è nemmeno necessario proferirne i nomi, tanto sono celebrati.

“Quel certo che” – dice dunque Vasari – cui non pervennero i maestri, pur grandi, del Quattrocento (si va – per intendersi – da Piero della Francesca a Mantegna, da Giovanni Bellini a Botticelli), fu conseguito da quelli venuti dopo, per via della scoperta di marmi antichi prodigiosi: il Laocoonte, il ‘Torso del Belvedere’, l’Apollo (sempre del Belvedere), l’Ariadne (che il biografo aretino chiama Cleopatra), l’Ercole e la Venere. Sono – come si vede – tutte sculture ellenistiche; sculture informate, cioè, a languori, a un sensitivo patetismo, a prolungati affetti. La convinzione ne viene che, a giudizio di Vasari, siano stati proprio questi sentimenti, incarnati in opere antiche esaltate da Plinio, a determinare uno scatto nella lingua figurativa degli artisti. 

Ebbene: le parole che lui spende per descrivere le peculiarità di quei marmi a me verrebbe di rinnovarle al cospetto delle meditazioni sull’antico di Luca Pignatelli, esposte nella Sala del camino agli Uffizi, a far contorno all’effigie di sé come Mitridate (essa pure contemplazione della classicità) che lui dona alla collezione dei ritratti d’artista della Galleria fiorentina. Vasari per descrivere gli affetti che promanano i brani ellenistici parla di “dolcezza”, di “termini carnosi e cavati dalle maggior' bellezze del vivo”, di “atti che non in tutto si storcono ma si vanno in certe parti movendo”, di “graziosissima grazia”. Pignatelli non sempre si volge all’estenuate sembianze di gusto ellenistico, ma, anche quando i riferimenti si spostano su sculture d’altre età greche o romane, pur sempre permangono sottesi all’invenzione i sentimenti languorosi e il trasporto accorato verso lontane stagioni grandi, tramontate e tuttavia radicate nella mente e nel cuore di chi n’è spiritualmente erede.

La memoria ancora torna al Proemio vasariano, là dove s’aggiudica a Leonardo il merito d’aver dato principio alla ‘maniera moderna’, non tanto per le doti elevate che ognuno gli riconosceva (la valentia nel disegno, la profondità d’intelletto, la capacità di ritrarre lenticolarmente le minuzie della natura), quanto perché il Vinci “dette veramente alle sue figure il moto et il fiato”. E davvero a Leonardo spetta il primato d’aver impresso negli attori dei drammi da lui figurati quelle movenze attorte e quei volti ispirati (obliqui nelle posture e segnati da un pathos soave nelle bocche dischiuse e negli occhi levati al cielo). E a buon diritto Vasari dice di lui ch’è stato il primo a farlo; giacché, se a partire dagli ultimi anni del Quattrocento e, più ancora, agli esordi del Cinquecento fu costume usuale dare sfogo agli affetti nelle figure, Leonardo già ai primi anni ottanta del quindicesimo secolo (nell’Adorazione dei magi degli Uffizi e nel San Girolamo della Pinacoteca Vaticana) incarna nelle opere sue l’adesione appassionata agli stilemi ellenistici. È guardando a quei marmi antichi che trova i modelli per infondere liricamente nei suoi personaggi “il moto et il fiato”: il moto ruotandone a spirale i corpi, il fiato schiudendone le labbra.

La stessa sensazione sovviene osservando le teste di Pignatelli; nelle quali mi par significativo che l’artista abbia scelto un’illuminazione capace di sommuovere vieppiù le corde dell’animo del riguardante. Gli sbattimenti della luce sugli zigomi e sulla fronte e, per converso, l’ombra buia sotto le arcate sopraciliari ad affossare l’orbita degli occhi, sono i segni di un’aspirazione a eccitare lo struggimento dello spirito davanti alla bellezza e alla sua fatale caducità. Bellezza che peraltro vive tuttora, a dispetto del tempo che, trascorrendo, ha inferto le sue mutilazioni; le quali, però, n’accrescono alla fine i fremiti. È la melanconia per un transito ineluttabile; sentimento che lascia tracce nelle rime delle bocche, serrate quasi sempre, eppure all’apparenza socchiuse, giustappunto in ragione d’una luce, che, piovendo dall’alto, solca d’un’ombra marcata il labbro superiore, ingenerando così l’impressione o l’illusione d’un sospiro d’amorosa nostalgia.

Le teste antiche di Pignatelli si riscattano dai rischi d’una troppo sdilinquita tenerezza in virtù dei materiali scabri in cui la loro effigie è proiettata. Sono legni che, per la casualità di venature lasciate a vista o di coloriture rimaste imperfette o consunte o guastate da cadute, si offrono come supporti umili e dimessi. Legni che le sbreccature ai margini e talora, addirittura, le fratture che vi s’aprono (trascorrendone per intero la superficie), denunciano la medesima, terrena fragilità dei marmi.

“Tempus elevat omnia” è scritto su un cartiglio esibito da una donna nuda, che sta ritta su libri strappati e pezzi d’armatura, in un bel quadro dossesco degli Uffizi. Il tempo consuma tutto e tutto disperde: la bellezza, il potere, la ricchezza, la cultura. La sapienza biblica lo tramanda con la forza poetica del Qoelet. E dallo sconcerto, che ne discende, l’uomo si redime o con la fede in un Padre che a tutto invece dà senso o coi vibratili affetti della poesia (e però anch’essa, non di meno, caduca).   

L’Autoritratto di Pignatelli, che sotto specie d’un Mitridate entra oggi nelle collezioni degli Uffizi, si fa lirico emblema – con la sua felice commistione d’antico e moderno – d’uno degli assunti ideologici sottesi al sogno che Francesco I concretò nella Galleria e alle scelte museografiche di chi nel tempo n’ha ereditato la cura: la convivenza di stagioni fra loro distanti. Antico e moderno, appunto, coesistono nelle collezioni e, anzi, fra loro gareggiano. La storia non conosce diaframmi; e l’arte non fa eccezione.

A. Natali, A. C. Quintavalle, Luca Pignatelli, Migranti, Galleria degli Uffizi, Firenze, 2015
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